Parola e variabile economica che fino all’anno scorso sembrava dimenticata, affievolita da anni di politiche monetarie ultra espansive da parte delle Banche Centrali di tutto il mondo e che è tornata prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi. Da inizio 2022 infatti non c’è telegiornale, canale di comunicazione economico o periodico che non la menzioni almeno una volta al giorno. Nonostante questa ritrovata notorietà, ritengo si faccia ancora fatica a comprendere realmente il concetto dell’inflazione come variabile economica.

Mi spiego meglio. Credo che per semplicità di comprensione, siamo abituati a concepire l’inflazione come una perdita del potere di acquisto del nostro denaro a seguito di un incremento dei prezzi. Questa è la spiegazione immediata che ci diamo in quanto è la più assimilabile e soprattutto tangibile. Tangibile perché lo riscontriamo direttamente nelle nostre abitudini di spesa quotidiane: negli ultimi dodici mesi il prezzo del caffè è aumentato del 108%, l’incremento dei prezzi dei carburanti e di gas e luce ha inciso enormemente sui bilanci famigliari e aziendali e i prezzi dei beni alimentari hanno registrato generalmente incrementi superiori al 10% rispetto al primo trimestre del 2021. Questi elementi sono da noi immediatamente percepibili: ci troviamo con meno soldi in tasca(letteralmente).

Quello che è più difficile comprendere, e richiede uno sforzo maggiore, è l’impatto corrosivo di questa grandezza sul capitale. Proprio perché è meno tangibile ma ahimè non meno efficace. Vediamo come, partendo da un dato eclatante. Secondo le stime fornite da Banca d’Italia, nelle banche italiane sono depositati oggi circa 1800 miliardi di € nei conti correnti(nella migliore delle ipotesi infruttiferi, cioè che non pagano interessi). Ad un tasso di inflazione del 2% annuo, significa una perdita secca di valore di circa 40 miliardi di €  (per intenderci più dell’ultima manovra di bilancio dello Stato!!).

Perché allora un dato di tale rilevanza non riesce a tramutare questo enorme patrimonio “liquido” in produttivo? Tralasciando aspetti culturali e purtroppo di scarsa educazione finanziaria , il motivo risiede nella reale comprensione dei concetti di valore nominale e valore reale. Ricorro per spiegarvelo ad un esempio.

Se oggi ho depositati nel c/c 10.000€, tra 5 anni senza considerare costi e impatti fiscali, avrò ancora in termini NOMINALI 10.000€. Ad un primo“impatto visivo”, non avrò riscontrato perdite. Vedrò ancora i miei soldi ed il mio capitale, perfettamente intatti. Ma il valore nominale di un capitale è irrilevante, in presenza di inflazione. E l’inflazione , per quanto bassa possa essere, è una grandezza economica da considerare.

E dunque, in termini REALI cosa succede? Esattamente questo: se nel 2010 il costo di un’autovettura era di 10.000€, dopo 10 anni e con un tasso di inflazione al 2% annuo, per comprare la stessa identica macchina mi occorrono circa 5000€ in più(e

vi ricordo che l’inflazione è una grandezza che cresce in capitalizzazione COMPOSTA). Se avessi tenuto i soldi liquidi nel c/c, dopo 10 anni sarei stato in grado di comprare 1/3 di quella famosa autovettura. Mica male come affare….

Ora, non aspettatevi alcun tipo di ricetta immediatamente vincente per venire a capo della questione. L’obiettivo principe di qualsiasi investitore deve essere il mantenimento del potere di acquisto nel medio lungo periodo. Ma questo richiede energia, pianificazione e preparazione partendo come sempre dai dati. Citando Warren Buffet: “ investire è semplice, ma non è facile”.

L’informazione che ci arriva dai dati in tema di mantenimento del potere di acquisto è lampante: nel grafico che segue viene evidenziato il confronto tra il valore reale di un capitale di 10.000€ dopo 10,15 e 20 anni se tenuto liquido nel conto corrente o , alternativamente, se investito in un portafoglio bilanciato composto dagli indici MSCI WORLD(AZIONARIO) e Bloomberg Global Aggregate Total Return(OBBLIGAZIONARIO).

E dunque? Che insegnamento trarre da questa evidenza grafica? Primo e fondamentale: la liquidità non paga. La liquidità in quanto tale deve essere propedeutica al soddisfacimento delle esigenze di cassa. Qualsiasi eccedenza è improduttiva ed infruttifera. Da qui, mediante un processo di pianificazione finanziaria che deve partire dalla definizione del proprio obiettivo di investimento e del proprio budget di rischio (!!!), si cercherà di costruire l’asset allocation del portafoglio investimenti che meglio rispecchierà le nostre necessità, tenendo conto ancora una volta delle evidenze fornite dalla storia e dai dati.

Nell’ultimo paper Yearbook 2022 redatto da Credit Suisse (che consiglio a chiunque sia interessato di leggere), gli analisti hanno messo a confronto i rendimenti REALI di obbligazioni ed azioni, nei 21 Paesi per i quali i dati a disposizione hanno consentito di ricostruire la storia degli ultimi 122 anni e, dunque, dal 1900 al 2021. Il risultato dello studio è che, seppur condizionate in negativo in periodi di forte inflazione, le azioni hanno registrato performance reali superiori all’asset class obbligazionario (nel grafico la linea verde rappresenta i valori dell’inflazione).

Voglio concludere sottolineando nuovamente un concetto che ribadisco spesso: concentrarsi sull’ora e subito in questo mondo crea errori e distorsioni. L’inflazione, tornata per l’appunto in voga in questi mesi, è in realtà la variabile su cui ogni “investitore intelligente” credo dovrebbe parametrarsi.

Definire (se possibile con l’ausilio di un professionista) il proprio budget di rischio, la propria “tolleranza”, sulla base del quale sarà poi definito un obiettivo di investimento che dovrà tendere a salvaguardare nel tempo il potere di acquisto del nostro denaro. Storicamente, tanto maggiore è stata la componente azionaria di un portafoglio investimenti, tanto maggiore è stato il risultato in termini (ancora una volta) reali.

Alla prossima,

Stefano.